LE VITTIME DELLA PANDEMIA

Di questa emergenza sanitaria si è parlato tanto, se ne sta parlando ancora molto e si continuerà a farlo per chissà quanto tempo ancora. È stata analizzata sotto i diversi punti di vista, medico, sociale, economico, umano e dai più gettonati esperti dei relativi settori. Le pubblicazioni brevi, gli articoli, i saggi ed i libri hanno riguardato il racconto basato sui numeri statistici, sulle esperienze di chi ha vissuto in diretta e di riflesso le conseguenze della pandemia, con la speculazione antropologica e lo studio dei comportamenti degli individui prima, durante e la previsione degli stessi dopo il passaggio del virus. Insomma, c’è tanto materiale che non servirebbe fare alcuna aggiunta. Ma una riflessione su un aspetto di certi comportamenti umani in particolare mi sento di farla e condividerla con chi comincia a chiedersi se certe previsioni si stanno avverando. Come quella sui cambiamenti che dovrebbe
ro caratterizzare il dopo pandemia! Cioè l’ipotesi sostenuta da molti che un effetto del lungo isolamento sociale a cui sono stati sottoposti gli individui avrebbe portato ad un maggior senso di solidarietà e un miglioramento delle relazioni interpersonali.
Siamo nel momento dell’uscita della fase peggiore e stiamo entrando nelle fasi che riporteranno la normalità nel vivere la vita famigliare, professionale e sociale e quindi nel momento buono per cogliere quei segnali che ci dovrebbero far capire in che direzione si muovono gli animi.
In questa fase è in corso un dibattito, che definirei aspro ed astioso, sulle misure per la ripresa delle attività. All’uscita dei decreti sia per gli aiuti economici e finanziari a privati ed imprese e quelli per la regolamentazione delle attività in sicurezza si è sollevata una generale protesta all’insegna dell’insoddisfazione, nei casi più blandi, e della contestazione, in quelli più violenti, contro le istituzioni. Non si sono sentite voci di consenso per quel che si prevedeva di fare per far fronte all’emergenza economica, piuttosto di aperta condanna da parte di tutte le categorie con esclusione di quelle che sono state favorite grazie ai servizi resi o le cose materiali fornite durante la pandemia, di quelle che hanno goduto sempre di un sostentamento statale e dei fortunati che appartengono al famoso 1% della ricchezza. Fra questi ultimi, quelli che hanno protestato a prescindere, lo hanno fatto più per sostenere solidalmente il malcontento dei meno abbienti che per reale necessità.
Il rumore di sottofondo è stato l’evocazione con toni apocalittici del disastro annunciato mentre gli acuti sono stati i dati a due cifre negativi per ogni indicatore economico, arrotondati all’eccesso. Non c’è giorno che i media non diano spazio e facciano eco alle dichiarazioni di allarme e sconforto.
L’affermazione che mi ha più colpito ed amareggiato è che si può morire di Covid19 ma anche di crisi economica. Quindi che anche queste categorie di lavoratori ed imprenditori sono vittime del virus. Come spesso accade le parole vengono usate con una certa forma di metonimia che porta ad estendere il significato stretto anche ad altre cose o fatti non strettamente riferiti alla parola stessa.
Le vittime del virus, etimologicamente intese come sacrificati o immolati sull’altare di questa terribile malattia, sono innanzitutto quelli che sono stati privati dalla vita e quelli che hanno sofferto la malattia personalmente o ne sono stati coinvolti indirettamente come parenti, amici e sanitari che hanno prestato assistenza. Questi non saranno più sani nel corpo e nello spirito, perché una tragedia così forte non si aggiusta con interventi umani né si archivia nella mente in modo definitivo. Una parte di loro rimarrà lesa insanabilmente per sempre e di questo non possiamo dimenticarci soprattutto noi che abbiamo avuto la fortuna di non essere toccati dal male. A loro dobbiamo un rispetto ed una memoria da rinforzare nel tempo con pensieri, comportamenti ed azioni volti a migliorare la nostra vita personale e sociale, cioè con progetti concreti di una nuova convivenza.
Ci sono, poi, quelli che hanno pagato, pagano e pagheranno le conseguenze della crisi indotta dalla chiusura delle attività per un tempo più lungo di quello che sono le fermate programmate e in un modo coercitivo e totalizzante. Parliamo quindi di “vittime” economiche o, meglio, di “ostaggi” della pandemia che hanno subito la reclusione per limitare la devastazione fisica e morale del male. Questi ora si troveranno a riprendere gli impegni con tante incertezze, cambiare qualcosa dello standard con fatica o rinunciare alle proprie speranze con sofferenza. Fra le tante negatività essi hanno, tuttavia, il vantaggio di essere consapevoli della situazione, di mantenere il bagaglio di energia costruttiva e di essere sani nel corpo e negli affetti per progettare il futuro. Il loro tempo di “ostaggi” è finito e potrà essere più facilmente dimenticato. Per loro è giusto l’aiuto della comunità nelle varie forme previste dalle leggi normali e speciali per sostenerli in questo titanico ed inatteso sforzo e per essi è moralmente rilevante che quelli che non hanno perso né salute, né soldi, anzi si sono arricchiti, contribuiscano alle finanze dello stato in proporzione alle loro possibilità e nelle forme che garantiscano il riconoscimento della solidarietà, mettendo mano ad una parte dei risparmi e investendoli nella rinascita di un paese che ha dato tanto anche a loro. A questi “ostaggi” l’augurio che torni l’energia e l’entusiasmo a scacciare disperazione e rinuncia, che possono facilmente derivare nell’egoismo.
Lo sforzo di riequilibrare le pur comprensibili pretese ed il sacrificio di rinuncia a qualcosa di proprio mi sembrano atteggiamenti dovuti nel confronto delle altre “vittime” della pandemia, ovvero i nostri figli, i giovani che non sono ancora entrati nel vortice della produzione e del consumo e che si trovano un fardello economico aggiuntivo da pagare nel futuro in chissà quale misura e con chissà quali conseguenze per la qualità della loro vita. Impotenti, inconsapevoli e sguarniti per far fronte all’imprevisto. Ad essi dobbiamo qualcosa più che la solidarietà: dobbiamo un impegno a rinchiudere nel nostro cuore, umilmente, qualsiasi manifestazione plateale di fastidio che le perdite e le rinunce del presente stato ci affliggono, reprimendo la voglia di esasperare le lamentele per la difficile situazione o, peggio, di barare sull’entità del danno subito.
Ristabilire l’ordine di priorità e rimodulare le necessità lo dobbiamo, quindi, ai due tipi di grandi e vere vittime del virus che non possono altrimenti reagire come, invece, lo possono fare gli “ostaggi” liberati e con tutte le facoltà da spendere per la ripresa.
In questa occasione la cultura potrebbe venirci in aiuto: una cultura che ci insegni a coinvolgerci nel nuovo progetto di costruzione di un futuro più sostenibile da tutti i punti di vista. Coinvolgerci per partecipare coralmente e non lasciando ai pochi e potenti, ai distanti ed estranei, alle corporazioni e alle ideologie il compito di cambiare le cose secondo logiche particolari e privatiste. Una cultura che con la storia, l’esperienza, la scienza e l’etica ci sostenga in una ripresa di responsabilità e di deleghe fin qui cedute ad altri per rincorrere il tempo della spensieratezza.
Una mano la può dare chi non ha perso niente, non ha sacrificato, non ha sofferto, è in pieno vigore di spirito e corpo e come compenso della fortuna che lo ha aiutato deve poter dedicarsi a contribuire ad un nuovo umanesimo con la sua umanità rinnovata.

(17/05/2020)

Questa voce è stata pubblicata in RIFLESSIONI. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento